Corte Costituzionale: “Almeno quattro ore d’aria al giorno anche per i detenuti al 41-bis”

Con la sentenza n. 30, depositata il 18 marzo, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della normativa che impone un limite di due ore al giorno per la permanenza all’aperto dei detenuti sottoposti al regime del 41-bis. La Corte ha stabilito che questo trattamento costituisce una violazione dei principi costituzionali, in quanto non giustificato dalla necessità di garantire la sicurezza, che può essere assicurata attraverso la separazione adeguata dei gruppi di socialità all’interno degli istituti penitenziari.

La questione sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari riguarda esclusivamente la durata della permanenza all’aperto dei detenuti al 41-bis, e non mette in discussione il regime speciale complessivo previsto dalla legge. Con la sua decisione, la Corte ha chiarito che, pur mantenendo la struttura del regime differenziato, i detenuti devono poter godere di almeno quattro ore di aria e luce naturale al giorno, come previsto dall’articolo 10 della legge di ordinamento penitenziario. La possibilità di ridurre questo tempo a due ore resta, però, valida solo in casi eccezionali e giustificati.

Secondo la Corte, la normativa precedente, che fissava il limite massimo a due ore, non era conforme alla finalità rieducativa della pena, in quanto riduceva eccessivamente le possibilità di fruire di luce naturale e aria, senza apportare reali benefici in termini di sicurezza. La sicurezza, infatti, è garantita dalla selezione accurata dei gruppi di socialità e dall’adozione di misure di sorveglianza specifiche, che impediscano contatti tra gruppi diversi di detenuti.


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Revocazione per contrasto con la CEDU: la Cassazione pone un limite

La revocazione di una sentenza passata in giudicato per contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) può essere invocata solo in presenza di una violazione che abbia compromesso un diritto di status della persona. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 7128/2025, depositata il 18 marzo, che fornisce un’interpretazione restrittiva dell’articolo 391-quater del Codice di procedura civile, introdotto dalla riforma Cartabia (Dlgs 149/2022).

Il limite imposto dalla Cassazione

Secondo la Suprema Corte, il rimedio della revocazione non è applicabile in tutti i casi in cui la Corte EDU abbia dichiarato contraria alla Convenzione una decisione nazionale. È invece circoscritto alle sole sentenze che abbiano negato, ritardato o erroneamente attribuito uno status personale, generando un pregiudizio non risarcibile con un indennizzo economico.

Di conseguenza, la revocazione non può essere richiesta quando la decisione nazionale ha riguardato esclusivamente una richiesta risarcitoria, anche se relativa a un diritto fondamentale della persona.

Il caso concreto e la decisione della Corte

Nel caso esaminato, i ricorrenti avevano chiesto la revocazione di una sentenza definitiva che aveva respinto la loro richiesta di risarcimento per la morte di un familiare, avvenuta nella camera dei fermati della Questura di Milano. La Corte EDU aveva riconosciuto una somma per i danni non patrimoniali, ma la Cassazione ha ritenuto che tale indennizzo fosse sufficiente a compensare la violazione accertata, escludendo quindi la possibilità di revocazione.

Il principio di diritto stabilito dalla Cassazione

La Terza Sezione Civile ha affermato che l’articolo 391-quater c.p.c. può essere invocato solo se la sentenza passata in giudicato ha negato o ritardato il riconoscimento di uno status personale o se ha attribuito erroneamente uno status pregiudizievole. In tutti gli altri casi, quando la richiesta originaria aveva già una finalità risarcitoria o di compensazione per equivalente, la revocazione non è ammessa.

Con questa pronuncia, la Cassazione delimita in modo netto l’applicabilità del nuovo istituto, confermandone l’uso solo per le questioni legate allo status della persona e non per generiche violazioni di diritti fondamentali.


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Gratuito patrocinio, l’ammissione del giudice ha effetto retroattivo

L’ammissione al gratuito patrocinio disposta dal giudice, dopo il rigetto iniziale del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, deve avere efficacia ex tunc, ovvero retroagire alla data della prima richiesta. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 6888/2025, riconoscendo che, in caso contrario, la persona non abbiente si troverebbe a dover sostenere spese che invece spettano allo Stato.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha dato prevalenza all’orientamento giurisprudenziale che tutela l’interesse del richiedente a impugnare i provvedimenti che concedono il patrocinio con efficacia solo ex nunc, cioè senza copertura retroattiva. Un diverso orientamento, infatti, aveva ritenuto che la questione riguardasse solo gli onorari spettanti al difensore, escludendo la possibilità per il patrocinato di impugnare il provvedimento.

La Cassazione ha invece chiarito che la questione non si limita alla liquidazione degli onorari, ma riguarda direttamente i diritti patrimoniali della parte non abbiente. L’interpretazione ora confermata dalla Seconda Sezione Civile sottolinea che l’ammissione con effetto retroattivo garantisce la copertura di tutte le spese sostenute tra il rigetto dell’Ordine e la successiva decisione del giudice.

Le spese coperte dal gratuito patrocinio

La Cassazione evidenzia che tra le spese rimborsabili rientrano non solo gli onorari dell’avvocato, ma anche altri costi sostenuti nel corso del giudizio, come:

  • Spese di viaggio per testimoni e consulenti
  • Imposte versate per avviare il processo
  • Altri oneri documentati sostenuti “medio tempore”

Con questa pronuncia, la Cassazione afferma in modo chiaro che tali costi rientrano nei diritti patrimoniali del soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato, evitando che il rigetto iniziale dell’Ordine si traduca in un danno economico per chi ha diritto all’assistenza gratuita.


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Cassa Forense, via alla compensazione tra contributi e crediti da gratuito patrocinio

Dal 1° marzo si è aperta la prima finestra dell’anno per la compensazione dei contributi previdenziali dovuti a Cassa Forense con i crediti derivanti dal gratuito patrocinio. Gli avvocati interessati hanno tempo fino al 30 aprile per completare l’operazione, che deve essere effettuata attraverso il modello F24 WEB disponibile su Entratel o Fisconline.

I passaggi necessari per la compensazione

1. Registrazione sulla piattaforma PCC
Per poter compensare i crediti, è necessario essere registrati sulla Piattaforma dei Crediti Commerciali (PCC) del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Chi non è ancora registrato deve richiedere la pre-registrazione presso la Pubblica Amministrazione debitrice o la Ragioneria territoriale dello Stato competente, per poi completare l’iter tramite PEC.

Le fatture che si vogliono utilizzare in compensazione devono trovarsi sul sistema PCC e risultare negli stati “inviata”, “ricevuta” o “in lavorazione”. Non possono essere utilizzate fatture già pagate, anche solo parzialmente, o dichiarate non liquidabili.

2. Selezione delle fatture per la compensazione
Dopo l’accesso alla piattaforma PCC, nella sezione “Fatture autocertificazione” si avvia la procedura di compensazione creando una nuova autocertificazione. Il sistema permette di selezionare solo le fatture idonee e richiede l’inserimento del numero SIAMM del decreto di liquidazione. Una volta salvata l’autocertificazione, il documento va firmato digitalmente e ricaricato sul sistema.

3. Pagamento tramite F24 WEB
Il pagamento dei contributi previdenziali avviene con il modello F24 WEB. Accedendo alla propria area personale sul sito di Cassa Forense, si seleziona l’opzione per il pagamento tramite F24. Il sistema genera automaticamente un modello precompilato, che deve essere copiato su Entratel o Fisconline, inserendo il codice tributo e l’importo del credito da compensare.

Questa opportunità rappresenta un vantaggio per gli avvocati che operano nel gratuito patrocinio, consentendo di alleggerire il peso dei contributi previdenziali attraverso un meccanismo di compensazione strutturato.


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L’intelligenza artificiale generativa al centro di una nuova guerra tecnologica

L’intelligenza artificiale generativa è al centro di una competizione globale senza precedenti, dove innovazione, strategie di mercato e dinamiche geopolitiche si intrecciano in uno scenario in continua evoluzione. Colossi tecnologici come OpenAI, Anthropic, DeepSeek e Alibaba stanno ridefinendo il settore, mentre la crescente rivalità tra aziende occidentali e cinesi porta a scelte strategiche che potrebbero influenzare l’intero ecosistema dell’IA.

Negli ultimi giorni, OpenAI ha avanzato una proposta controversa, esprimendo preoccupazioni sulla sicurezza e sul controllo delle tecnologie IA prodotte in Cina. L’azienda statunitense ha definito la cinese DeepSeek “sovvenzionata” e “controllata dallo Stato”, raccomandando al governo degli Stati Uniti di valutare un divieto sui modelli sviluppati da questa e altre realtà supportate dalla Repubblica Popolare Cinese. Un’escalation che non riguarda solo il progresso tecnologico, ma anche gli equilibri politici e commerciali su scala globale.

Il pericolo di un divieto sui modelli open-source

L’eventuale divieto di modelli open-source come DeepSeek potrebbe rappresentare una svolta critica per il settore. L’IA open-source è stata finora un elemento chiave nella democratizzazione della tecnologia, consentendo a ricercatori, aziende e sviluppatori di tutto il mondo di contribuire ai progressi del settore. Un’azione restrittiva come quella suggerita da OpenAI rischierebbe di soffocare l’innovazione, limitare la concorrenza e rallentare l’evoluzione dell’intelligenza artificiale a livello globale.

La preoccupazione di OpenAI e Anthropic nei confronti di DeepSeek e Alibaba è giustificata dalla rapida adozione di questi modelli, che si pongono come alternative competitive ai loro prodotti proprietari. La natura open-source di DeepSeek e Qwen, il modello sviluppato da Alibaba, consente una diffusione e un adattamento più rapidi, minacciando il dominio delle aziende occidentali nel settore dell’IA generativa. Questo potrebbe portare a un riequilibrio del mercato, favorendo un modello più distribuito e meno centralizzato.

Il rischio di un monopolio nell’IA generativa

Un’altra questione chiave è il rischio di monopolio o duopolio nell’intelligenza artificiale generativa, con OpenAI e Anthropic che detengono gran parte del controllo sul settore. Un simile scenario potrebbe frenare l’innovazione, aumentare i costi per gli utenti e ridurre la qualità dei servizi offerti. Inoltre, il controllo centralizzato sull’IA generativa potrebbe tradursi in un maggiore rischio di abusi, come la manipolazione dell’informazione o un uso invasivo della sorveglianza digitale.

In questo contesto, la posizione di OpenAI, sempre più allineata con le politiche protezionistiche dell’amministrazione Trump e il movimento MAGA, solleva ulteriori interrogativi. Da un lato, un tale schieramento potrebbe rafforzare la sua influenza sul mercato statunitense; dall’altro, rischia di alienare il supporto di comunità scientifiche, governi e aziende favorevoli a un approccio più aperto e collaborativo. Questo potrebbe tradursi in un accesso limitato a mercati strategici come Europa e Canada, dove la regolamentazione sull’IA è orientata alla protezione della privacy e all’innovazione responsabile.

Le risposte di Europa e Canada alla strategia di OpenAI

Se OpenAI proseguisse sulla strada della chiusura verso i modelli open-source, l’Europa e il Canada potrebbero rispondere adottando misure normative più stringenti nei confronti della società americana, promuovendo alternative locali e rafforzando la cooperazione con aziende e governi favorevoli a un ecosistema IA più aperto. Entrambi i blocchi hanno investito significativamente nella creazione di un’intelligenza artificiale etica e trasparente, e vedrebbero un eventuale divieto come una minaccia ai loro principi fondamentali.

Un esempio di questa competizione diretta è DeepSeek-R1, uno dei principali rivali di ChatGPT e GPT-4.5. Grazie a un’architettura avanzata e a prestazioni eccellenti in vari compiti di elaborazione del linguaggio naturale, DeepSeek-R1 si pone come una valida alternativa ai modelli proprietari dominanti. La sua natura open-source lo rende inoltre più flessibile e adattabile alle esigenze di aziende e sviluppatori, aumentando il suo potenziale di diffusione.

Sicurezza e privacy: OpenAI contro i modelli open-source

OpenAI giustifica la propria posizione evidenziando i rischi legati alla privacy e alla sicurezza derivanti dai modelli open-source, sostenendo che questi potrebbero essere utilizzati per attività malevole, dalla diffusione di fake news alla creazione di strumenti di sorveglianza avanzata. Tuttavia, questa argomentazione solleva dubbi: anche i modelli closed-source non sono esenti da rischi, e la loro gestione centralizzata potrebbe aumentare le possibilità di un uso improprio da parte di aziende e governi.

A lungo termine, se OpenAI continuerà a sostenere politiche protezionistiche e restrittive, potrebbe subire un contraccolpo significativo. La chiusura verso il mercato open-source potrebbe danneggiare la sua reputazione, limitare la sua capacità di attrarre talenti e investimenti internazionali e, soprattutto, favorire la nascita di alternative competitive. In uno scenario globale sempre più frammentato, la sfida dell’IA non sarà solo tecnologica, ma anche politica ed economica.


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Negli ultimi anni si sono susseguiti studi e proposte, come quella dell’ex presidente della Corte d’Appello di Brescia, Claudio Castelli, e del procuratore generale Guido Rispoli, che evidenziano il problema e avanzano soluzioni per rendere la giustizia una fonte di entrate per il Paese. Tuttavia, è lecito chiedersi perché chi ha avuto ruoli di vertice nel sistema giudiziario non abbia già agito concretamente in questa direzione quando ne aveva la possibilità.

Claudia Ratti: “Le risorse ci sono, ma servono riforme vere per incassarle”
Sulla questione è intervenuta Claudia Ratti, Segretario Generale di Confintesa Funzione Pubblica, che ha criticato l’inerzia del sistema e la tendenza a demandare la gestione di queste entrate a soggetti esterni:

“Non possiamo più limitarci a denunciare il problema senza agire. La giustizia non può continuare a essere un settore che genera entrate sulla carta ma non le incassa. Oggi il recupero dei crediti è affidato a Equitalia Giustizia, le vendite immobiliari a notai, commercialisti e avvocati, mentre il personale giudiziario rimane escluso da queste attività che potrebbero portare risorse al sistema. È ora di smettere di delegare e di mettere in campo soluzioni concrete per trattenere e valorizzare le risorse all’interno della giustizia stessa.”

Secondo Ratti, è necessario superare una visione burocratica e inefficiente della riscossione, investendo in strumenti digitali e in procedure semplificate: “Se vogliamo che la giustizia sia davvero un motore economico, dobbiamo darle i mezzi per funzionare: più efficienza, meno passaggi burocratici e una gestione che metta al centro gli uffici giudiziari, non solo gli esterni.”


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“Un grande abbraccio e le mia più profonda solidarietà al Procuratore Musti. Ci troviamo di fronte ad un attacco ignobile e spregevole nei confronti di un magistrato di altissima levatura morale e professionale. Un attacco che risulta anche un profondo vulnus alla democrazia e alle istituzioni stesse”, queste le parole di Nordio.


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A ribadire questo principio è la sentenza n. 356 del 7 ottobre 2024 del Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Napoli, rel. Palma), che conferma la centralità dell’obbligo deontologico rispetto alle strategie processuali degli avvocati. Un vincolo etico e professionale che rafforza la riservatezza e la lealtà nei rapporti tra colleghi, garantendo la correttezza dell’attività forense.


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Custodia cautelare, il piano Nordio: caserme dismesse per i detenuti in attesa di giudizio

Dopo la riforma sulla separazione delle carriere, ora in discussione al Senato, il ministro della Giustizia Carlo Nordio guarda al prossimo obiettivo: cambiare le regole sulla custodia cautelare, che in Italia riguarda un detenuto su quattro. In tutto, sono oltre 15mila le persone in carcere senza una condanna definitiva, di cui quasi 10mila in attesa del primo giudizio.

Una situazione che pesa sull’emergenza sovraffollamento, spingendo il governo a valutare un piano alternativo: trasferire parte di questi detenuti in strutture ad hoc, come caserme militari dismesse o riqualificate, pensate per un regime di detenzione attenuata. L’idea è sul tavolo di via Arenula da mesi e Nordio la considera una priorità.

Il ministro, intervenendo a un incontro con le Camere Penali a Venezia, ha definito “fallimentari” i criteri attuali della custodia cautelare, basati sul rischio di fuga, l’inquinamento delle prove e la reiterazione del reato. Un cambio di rotta è necessario e il governo si sta muovendo, con il sottosegretario Andrea Ostellari e il capo del Dap Andrea Delmastro a lavorare al dossier.

L’idea iniziale prevedeva la trasformazione delle caserme dismesse in vere e proprie carceri, ma i costi stimati dal Ministero dell’Economia si sono rivelati proibitivi. Da qui il “piano B”: utilizzarle per la sola custodia cautelare, riducendo così la pressione sulle carceri tradizionali. Un progetto che si affianca all’ipotesi di installare moduli detentivi prefabbricati negli spazi aperti degli istituti esistenti.

Intanto, la premier Giorgia Meloni segue il dossier con attenzione. Fonti governative riferiscono che avrebbe chiesto aggiornamenti costanti al commissario per l’edilizia carceraria, Marco Doglio, per accelerare l’ampliamento degli spazi detentivi. L’obiettivo resta far avanzare la riforma costituzionale sulla giustizia, ma il tema della custodia cautelare resta un nodo da sciogliere.

L’ultimo intervento sulla materia risale al primo Ddl Nordio, che ha introdotto la decisione collegiale del Gip sulla detenzione preventiva. Ora il governo pensa a un passo ulteriore, valutando il trasferimento dei detenuti in attesa di giudizio in nuove strutture. Il dibattito è aperto e la partita sulla giustizia resta centrale nell’agenda dell’esecutivo.


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Il disegno di legge del Governo Meloni sull’intelligenza artificiale (ddl S1146) ha subito una lunga fase di impasse: l’ultima seduta delle Commissioni competenti in Senato risale a novembre, dopo mesi di audizioni e il deposito degli emendamenti. Poi, improvvisamente, la conferenza dei capigruppo ha deciso che oggi, 18 marzo, il testo sarebbe dovuto approdare in Aula. Ma così non sarà: le Commissioni di merito non hanno ancora votato gli emendamenti e si attende il parere della Commissione Bilancio, fondamentale poiché il ddl è collegato alla manovra 2025.

Nonostante i ritardi, il provvedimento ha subito importanti modifiche. Tra gli emendamenti approvati dai relatori, si segnala un’estensione dell’uso dell’AI nei tribunali, non più limitato all’organizzazione del lavoro e alla ricerca giurisprudenziale, ma potenzialmente applicabile anche alle indagini. Resta ferma la riserva di decisione al magistrato, mentre il Ministero della Giustizia definirà le regole per l’uso dell’AI nei servizi giudiziari e nelle attività amministrative accessorie.

Si introducono inoltre due nuove norme: fino all’attuazione completa dell’AI Act europeo, il Ministero della Giustizia, sentite AgID e ACN, autorizzerà la sperimentazione e l’utilizzo dell’AI negli uffici giudiziari. Inoltre, sarà obbligatorio formare magistrati e personale amministrativo sull’uso e le implicazioni dell’intelligenza artificiale, colmando una lacuna della normativa originaria.

Altre modifiche riguardano l’allineamento con la normativa europea, con un richiamo più preciso alle definizioni dell’AI Act, la possibilità di accordi con privati per lo sviluppo di sistemi di AI, nuove norme sull’uso dell’AI negli studi professionali e limitazioni al dovere di informazione sui sistemi AI nei trattamenti sanitari.

Nel frattempo, AgID ha pubblicato le linee guida per l’uso dell’AI nella Pubblica Amministrazione, mentre ACN prosegue il suo lavoro sulla cybersicurezza con progetti innovativi. La Commissione Giustizia del Senato ha invece chiesto maggiore chiarezza sui limiti dell’AI nel diritto di difesa e un coinvolgimento più attivo di CSM e CNF nelle decisioni sull’uso della tecnologia nei tribunali.

Mentre il ddl attende il via libera definitivo, il dibattito sull’intelligenza artificiale nella giustizia italiana resta aperto, tra accelerazioni improvvise, ostacoli burocratici e la necessità di un equilibrio tra innovazione e garanzie.


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